Il potere di grazia secondo prassi e consuetudini costituzionali; la sua attualità nel vigente sistema penale

di Roberto Quintavalle

Pubblicato in: "Cassazione Penale" Anno XLI Fasc 11 - 2001

 

 

      L’evoluzione del sistema penale verso forme di esecuzione alternative alla detenzione in carcere sempre più sottoposte al controllo giurisdizionale, può indurre a dubitare della perdurante funzione dell’istituto della grazia, unico rimedio secondo la previgente normativa, per temperare il rigore della sanzione penale specie se restrittiva della libertà personale.

      A tale dubbio si aggiunge sia l’ostilità da tempo espressa anche in sedi qualificate verso tale istituto, considerato un relitto di antichi ordinamenti assolutistici, sia la diffidenza, talora anche tacitamente manifestata verso l’esercizio di questo potere ritenuto sospetto, per la sua ampia discrezionalità, di essere diretto solo in favore di pochi privilegiati.

      La conoscenza e lo studio della prassi formatasi nel primo cinquantennio di vigore della Costituzione, consentono però di dimostrare l’assoluta infondatezza di tali pregiudizi.

      E’ da rilevare anzitutto che, di fronte ai pochi casi portati alla pubblica attenzione dai canali di informazione, in modo da esaltarne solo gli aspetti che potessero colpire i destinatari della notizia, vi sono le migliaia di grazie che i vari Presidenti della Repubblica finora succedutisi hanno concesso e che, per la semplicità delle vicende, per la mancanza di notorietà dei protagonisti e comunque per le garanzie di riservatezza del procedimento, sono rimaste del tutto sconosciute.

      Proprio queste concessioni di grazia hanno consentito però il formarsi di un orientamento consolidato, notevolmente rilevante nell’indirizzare la pena verso la sempre migliore attuazione del principio costituzionale del suo fine rieducativo. E ciò attraverso l'uso prevalente della grazia condizionata alla non consumazione di altri reati entro un certo tempo, (uso introdotto nella prassi fin dal R.D. 7 ottobre 1900 al dichiarato scopo di prevenire le recidive) nonché nel rispetto di criteri generali costantemente seguiti nel tempo, come ad esempio il criterio dell’esigenza della sottomissione al giudicato da parte del beneficiario della grazia, così da escludere in linea di massima la concessione in favore di latitanti, e quello dell’esclusione di ogni valutazione del merito della sentenza di condanna, onde evitare di istituire di fatto un quarto grado di giudizio.

      Le eccezioni a questi e ad altri criteri che pur vi sono state, in quanto dettate da valutazioni che l’ampiezza del potere di grazia legittimamente consente, confermano la consistenza e validità di quell’orientamento consolidato che ha continuato ad operare utilmente anche dopo la riforma penitenziaria del 1975(1).

      Il Legislatore, predisponendo il testo del Codice di procedura penale del 1988 ha regolato all’art. 681 i provvedimenti relativi alla grazia, rammentando che essa “assolve una funzione correttivo-equitativa dei rigori della legge, ma ha anche, e sempre più, il ruolo di strumento di risocializzazione alla luce dei risultati del trattamento rieducativo” (cfr relazione al progetto preliminare), pur non senza dimenticare “le altre e diverse funzioni, di rilievo anche politico”, proprie dell’istituto (cfr. relazione al progetto definitivo).

      Tale regolamentazione non contrasta con la preoccupazione della direttiva 96 della legge di delega del suddetto codice di rito (art. 2 legge 16 febbraio 1987 n. 81) di assicurare garanzie di giurisdizionalità nella fase esecutiva ed anzi si coordina con essa.

      Ciò, perché la grazia opera l’estinzione del rapporto esecutivo, laddove gli altri istituti cui si rivolge la direttiva di delega, restano nell’ambito dell’esecuzione penale, pur se all'esito positivo dell'affidamento in prova al servizio sociale, la legge attribuisce efficacia estintiva non solo della pena, ma anche degli effetti penali della condanna.

      La grazia dunque, al di là del rango costituzionale della sua fonte primaria (art. 87 della Costituzione), si conferma nel sistema penale vigente quale ordinario mezzo di intervento.

      Al riguardo, è senz’altro condivisibile l’orientamento espresso dalla prassi più recente di privilegiare la cosiddetta giurisdizionalizzazione del rapporto esecutivo, e ciò specialmente quando il procedimento di sorveglianza sia stato già instaurato e ancor più quando il beneficio già concesso sia tuttora pendente.

      Non occorre tuttavia dimenticare che la grazia, può operare parallelamente, in alternativa od in concorso con i benefici penitenziari, e ciò, non solo quando essi non siano stati chiesti o ne difettino i presupposti temporali, ma anche quando la particolarità della fattispecie faccia ritenere preferibile l’estinzione anche parziale della pena, anziché un suo diverso modo di esecuzione.

      Nella prassi, tale ultima ipotesi si è attuata per esempio nel caso di norme più favorevoli intervenute dopo sentenze irrevocabili di condanna, allorché in presenza di altre circostanze meritevoli di considerazione, si ritenne equo temperare il rigore della precedente normativa, ovvero qualora l’esame del caso concreto consigliava di ridurre ad equità la sanzione penale anche pecuniaria, pur compresa nei limiti edittali.

      Un esempio di fecondo coordinamento e di concorso con le misure alternative può essere invece ravvisato nel criterio seguito in molti casi, di condonare solo in parte la pena che fosse eccedente i limiti di ammissibilità dei suddetti benefici.

      Ciò allorché l’esame degli aspetti soggettivi ed oggettivi (personalità del condannato, natura e gravità del reato, pena espiata, prevedibili reazioni della persona offesa, ed altro) non consigliava la totale estinzione della pena, ma offriva nel contempo elementi favorevoli per consentire di esaminare anticipatamente nel merito i requisiti per applicare misure alternative all’esecuzione in carcere della residua pena.

      In tale ipotesi si è lasciato pertanto alla magistratura di sorveglianza il compito di valutare, (ovviamente con autonomia di giudizio non condizionato dalla concessione della grazia), il caso in ulteriore e diversa istanza per garantire in definitiva, nel rispetto delle altre funzioni della pena, il recupero sociale del condannato. Diversa è invece in parte la considerazione del concorso tra grazia e liberazione condizionale, istituti questi entrambi finalizzati all'estinzione della pena, nel quale si deve registrare la preferenza per la liberazione condizionale specie per i condannati a gravi pene come quella dell’ergastolo, perché più limitativa rispetto alla grazia.

      Nondimeno, in presenza di circostanze particolari, specie soggettive sopravvenute al diniego della liberazione condizionale o in essa non considerate, la grazia può utilmente operare, così come ha operato in casi eccezionali sovrapponendosi alla liberazione condizionale, ritenuta quale forma attenuata di esecuzione della pena, allo scopo di estinguere anticipatamente la libertà vigilata, non altrimenti revocabile, nei confronti di condannati ai quali tale misura fosse di ostacolo ad un pieno reinserimento sociale.

      Quanto alle accennate diffidenze, che potrebbero indurre a lasciare alla grazia uno spazio limitato a casi eccezionali siccome espletamento di un potere straordinario ed ampiamente discrezionale non assistito quindi dalla garanzia giurisdizionale, occorre osservare che è vero che l’esame di posizioni soggettive nell’ambito della dialettica giudiziaria è garanzia per il condannato e per la collettività, e che i provvedimenti di clemenza individuale esulano invece dalla giurisdizione e, in quanto non soggetti a gravame, non sono formalmente motivati. Tuttavia è da rammentare che il potere di grazia è affidato al supremo organo dello Stato e che i controlli sull’esercizio di tale potere e quindi sulle ragioni del provvedimento, che restano nella fase interna dell’atto, sono pur sempre attuabili in sede parlamentare attraverso la responsabilità politica del Ministro competente (ordinariamente il Ministro della Giustizia, ma talora anche il Ministro della Difesa, per la materia attribuita alla giurisdizione militare) che propone e controfirma i decreti di grazia.

      Al riguardo, senza entrare nel merito della dibattuta questione del contenuto dei poteri del Presidente della Repubblica secondo la vigente Costituzione e, in particolare, del contenuto del potere di grazia che l’art. 87 gli attribuisce con formula identica a quella dello Statuto albertino, basterà qui rammentare, per quanto possa interessare l’approfondimento dottrinario del problema, che la prassi interpretativa ha sempre richiamato non solo la necessità della controfirma, ma anche la necessità della proposta. Ciò, in una visione del sistema di garanzie costituzionali che pone l’atto di grazia, pur quale atto complesso sotto la copertura della responsabilità ministeriale e che consente però iniziative od interventi del Capo dello Stato nella fase formativa del provvedimento, anch’essa regolata da criteri concordati nel tempo.

      Nel presupposto che le domande di grazia, per la notevole mole di richieste non potessero essere tutte portate all’esame del Presidente della Repubblica oltre che del Ministro competente, si è riservata a quest’ultimo e quindi agli uffici che ne dipendono, la facoltà di archiviare, allo stato degli atti, le domande non ritenute meritevoli di accoglimento o di avanzare la proposta di grazia al Capo dello Stato. Ciò, previa istruttoria di rito, nel quadro della procedura delineata dall’art, 681 del Codice di rito (e dall’art. 595 del Codice abrogato) che indica nel Ministro il soggetto destinatario della domanda di grazia, allorché sia stata corredata dai pareri ed osservazioni del Giudice di sorveglianza e del Procuratore Generale, espressi dopo l’acquisizione degli “elementi di giudizio utili” e delle “opportune informazioni”. Le circolari ministeriali che si sono succedute per regolare tali acquisizioni, non sono che provvedimenti interni applicativi di tale generica disciplina, mutevoli a seconda delle esigenze e non vincolanti se non nei limiti di una prassi orientativa della decisione che individua tali elementi di giudizio ed informazioni nelle dichiarazioni importanti ma non vincolanti, della persona offesa in merito al perdono ed al risarcimento, nello studio della personalità del soggetto, sotto il profilo dei precedenti penali, della condotta in carcere ed in libertà, delle condizioni familiari, di salute ed altro, oltre che ovviamente nell’esame della sentenza di condanna (natura e gravità del reato) e del suo stato di esecuzione.

      Pur in presenza di tali competenze di archiviazione o di proposta attribuite al Ministro, il Presidente della Repubblica ha sempre avuto la possibilità di intervenire nelle procedure di grazia per chiedere un’informativa verbale o scritta (c.d. “relazione obiettiva") sulle risultanze delle istruttorie compiute e sulle determinazioni adottate, ovvero per sollecitare l’istruttoria se non ancora conclusa ed infine per segnalare l’opportunità della concessione del provvedimento sul quale il Ministro avesse espresso avviso sfavorevole.

      Una costante e tacita convenzione costituzionale ispirata alla interpretazione dell’atto di grazia sopra indicata, ha fatto sì che il Capo dello Stato abbia potuto esprimere la propria volontà anche nella fase finale del procedimento che fosse concluso con la proposta di grazia.

      I vari Presidenti della Repubblica fin qui succedutisi non hanno infatti mancato di apportare modifiche al contenuto ed ai limiti delle proposte ovvero di rifiutare la firma del provvedimento, se ritenuto inopportuno. Ciò, sia operando materialmente sullo schema di decreto, come faceva talvolta Gronchi con aggiunte e modifiche autografe, sia chiedendo al Ministro proponente, come si è fatto in seguito, di modificare (o di esaminare l’opportunità di modificare) la proposta di grazia, ovvero sia sospendendone la decisione. sia rinviandola di qualche tempo dopo ulteriori accertamenti istruttori o dopo una ulteriore espiazione della pena.

      Allo scopo di esaminare ogni proposta di grazia onde garantire al provvedimento (e ciò sempre nei casi ordinari) la sua funzione equitativa (anche al di là o contro ogni valutazione ad essa estranea che lo potesse in qualche caso suggerire o influenzare in sede governativa), si sentì fin dalla Presidenza Gronchi la necessità di creare presso il Quirinale un organo tecnico che avesse anche compiti di collegamento con l’ufficio grazie del Ministero della Giustizia. per seguire l’attività istruttoria e per tenere costantemente informato il Capo dello Stato di ogni determinazione intervenuta nella fase procedimentale.

      Tale rapporto tra uffici all’uopo delegati è riconducibile direttamente al Presidente della Repubblica ed al Ministro competente, secondo moduli organizzativi interni mutevoli a seconda delle direttive e delle esigenze emergenti per l'esame delle numerose pratiche di grazia, e quindi non cristallizzati da prassi. Il collegamento suddetto, nonché l’adozione concordata di costanti criteri per la valutazione di merito, consente quindi di rispondere alle preoccupazioni espresse anche da autorevole dottrina circa l’esautoramento del potere di grazia non solo del Presidente della Repubblica, ma anche del Ministro, in quanto si asserisce che di fatto tale potere sarebbe esercitato burocraticamente –dagli uffici del Ministero(1).

      In realtà invece, proprio tale sistema di collegamento è valso ad assicurare una collaborazione tra Ministro e Presidente della Repubblica, ed a riservare a questo una partecipazione attiva e spesso determinante nonché a segnare delle linee direttive nell’ambito di un potere che, per sua natura ampio e discrezionale, non soffre limitazioni predeterminate per legge.

      Una volta perfezionato il decreto di grazia con la controfirma, oppure adottata una risoluzione negativa, definitiva od interlocutoria che fosse, il Ministro competente nel predetto quadro giuridico costituzionale consolidato, ne ha comunque sempre assunto la responsabilità anche politica, in un corretto equilibrio di rapporti tra organi costituzionali che non può ritenersi turbato nella sua continuità, da indiscrezioni, che pur si sono talvolta verificate circa la fase formativa del provvedimento.

      Il noto dissidio insorto tra il Presidente Cossiga ed il Ministro della Giustizia del tempo, a proposito del “caso Curcio”, le discussioni che ne seguirono ed i chiarimenti che fecero cessare il conflitto di attribuzione, sollevato dal Ministro, non contraddicono ma confermano la continuità di tale criterio interpretativo. In tale occasione infatti, il Presidente della Repubblica, pur rivendicando a sé, quale intestatario del potere di grazia, l’iniziativa di avviare d’ufficio il relativo procedimento, al pari della concorrente iniziativa spettante al Ministro, ribadiva la teoria della natura di atto complesso della grazia che, per essere validamente adottato, ha bisogno della  controfirma non solo formale, ma sostanziale del Ministro competente. Ed in sede di ricorso alla Corte Costituzionale, nel quale si contestava la decisione del Presidente del Consiglio, di portare la materia delle grazie “Curcio e simili” all’esame collegiale del Consiglio dei Ministri ex art. 5 2° co. lett. c) della legge 400/1988, il Ministro richiamava “il rango costituzionale delle norme e della prassi che presiedono all’esercizio del potere di grazia” insistendo sulle proprie attribuzioni in materia, tra le quali, oltre che il potere di controriforma, anche quello di iniziativa e di proposta. 

      A tale riguardo, i chiarimenti intervenuti da parte del Presidente del Consiglio circa la volontà di non innovare la procedura delle grazie, la conseguente chiusura del conflitto con la rinunzia al ricorso, nonché la mancata adozione di provvedimenti di clemenza in favore del Curcio, sui quali non si era raggiunto un accordo, dimostrano al di là della specificità del caso concreto (il quale sottintendeva l’intenzione di evidenziare la problematica generale sulle linee da seguire in ordine al periodo del terrorismo), che nessuno dei soggetti istituzionali coinvolti nel conflitto. voleva sostanzialmente dare all’atto di grazia una struttura diversa da quella fino ad allora seguita.

      Tale struttura non è stata modificata nemmeno nelle non molte concessioni di grazia “d’ufficio” che il nuovo Codice di procedura penale esplicitamente prevede (art. 681 4° co) e che una corrente dottrinaria, seguita solo in un caso, riteneva ammissibile anche nel vigore del Codice precedente.(1)

      Ed invero, la possibilità di concedere la grazia anche in assenza di domanda del condannato o di proposta del Consiglio di disciplina (al quale già il regolamento penitenziario adottato con RD 18 giugno 1931 n. 787 attribuiva tale facoltà), attiene solo alle condizioni di procedibilità del beneficio, che può derivare anche da una iniziativa del Presidente della Repubblica o del Ministro competente. Tale iniziativa,  che può essere motivata da superiori valutazioni di interesse interno od internazionale, resta però sempre limitata alla fase di formazione dell'atto secondo le regole sopra indicate e prescinde dalla volontà del condannato, il quale non può opporvisi, non avendo alcuna disponibilità del rapporto esecutivo.

      Si è detto che i compilatori del nuovo Codice di rito, hanno rammentato tra le funzioni della grazia anche quelle di rilievo politico. Esse sono senz’altro importanti quale strumento eccezionale di intervento sull’esecuzione penale, specie nei rapporti internazionali, come nel caso prima citato ed allora è più pregnante il richiamo alla responsabilità ministeriale che coinvolge anzi l’intero Governo.

      Qui ha interessato tuttavia considerare solo gli interventi ordinari, per sottolineare, in conclusione, come la grazia può continuare ad assolvere ai principali suoi compiti, pur in concorso di normative premiali, e ciò in una visione unitaria della funzione ultima del magistero penale.

 

                                                                  Roberto Quintavalle

 



(1) Deroghe al criterio del diniego della grazia ai latitanti, si registrano nei casi in cui situazioni oggettive e soggettive, nel motivare il provvedimento ai fini del recupero sociale del condannato, giustificavano nel contempo il beneficio prima che il ricorrente ottemperasse all’ordine di carcerazione (es. per il tempo trascorso dal fatto e dalla condanna per ragioni non imputabili al reo, nel frattempo reinseritosi nella società, ovvero per esecuzioni conseguenti a revoche tardive di indulti.).

Un caso di valutazione eccezionale di merito, ormai perso nel tempo, ma che può essere utile richiamare,  è invece la grazia concessa ai detenuti Briganti e Tacconi con D.P. 27 settembre 1953, in pendenza della procedura di revisione, allorché da una sentenza di condanna si era già acquisita la certezza che il fatto era stato commesso da altri. La procedura di revisione era stata sospesa in attesa che la sentenza, impugnata però per soli motivi formali, passasse in giudicato.

(1) cfr. per tutti G. Zagrebelsky, amnistia, indulto e grazia; profili costituzionali, Milano 1974, 218 sgg.

(1) Si rammenta in proposito la grazia concessa con D.P. 28 giugno 1965 dal Presidente Saragat ad un cittadino iugoslavo, in espiazione dell’ergastolo da circa 18 anni. La grazia istruita d’ufficio, insieme a quella in favore di altri tre iugoslavi, che però ne avevano fatto domanda, venne concessa nell'ambito di un accordo per pari trattamento in favore di detenuti italiani in Jugoslavia.

 

 

 

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